L'Europa finiva ai Pirenei
Fino al 1986: poi Spagna e Portogallo sono entrati nell’Unione, provando a portare al tavolo delle istituzioni gli interessi dell’Europa del Sud. Senza troppo successo, anche per colpa dell’Italia.
Ciao!
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La newsletter di oggi nasce, in realtà, l’anno scorso, quando durante un corso di giornalismo a Bologna assisto a una lezione sull’integrazione europea tenuta dalla professoressa Giuliana Laschi.
È lì che scopro, ad esempio, che molti Paesi europei difendono interessi comuni riunendosi in ‘blocchi’: l’Europa del Sud, no. E l’Italia ne è responsabile.
O che la competizione con la Spagna (o il disprezzo politico del “noi non siamo la Spagna”), semplicemente, non esiste (ma solo se parliamo di soldi!).
Insomma, scopro troppe cose interessanti per tenerle per me.
Per questo, qui sotto trovi un’intervista completa alla professoressa Laschi, che spero possa farti accendere tante lampadine in testa quante ne ha fatte accendere a me.
Iniziamo!
L’Europa finiva ai Pirenei
Facciamo un passo indietro: qual è stato, a grandi linee, il percorso della Spagna e del Portogallo all’interno dell’Unione Europea dal 1986 a oggi?
Giuliana Laschi: Spagna e Portogallo sono stati due Paesi che hanno lavorato molto per diventare membri della Comunità europea e poi dell'Unione, anche perché hanno visto in questo non solo la possibilità di entrare a far parte non solo del gruppo dei Paesi più ricchi del mondo, ma anche quella di lasciarsi alle spalle le rispettive dittature.
La Spagna, in particolare, ha avuto alcuni momenti complessi, soprattutto a livello di politica agricola comune: è un Paese molto importante su questo fronte, quindi sia con l’Italia che con la Francia ci sono state tensioni a causa della concorrenza. Tensioni che però la Spagna ha saputo superare in maniera molto aperta e partecipe, per vie diplomatiche.
Lo stesso approccio collaborativo è servito poi alla Spagna a stringere relazioni con l’America Latina, sia a livello nazionale che europeo. Nel 1986, le relazioni tra i Paesi europei e il continente latinoamericano erano poche e molto insoddisfacenti, soprattutto a causa dell’influenza degli Stati Uniti. La Spagna, in questo senso, ha lavorato molto per aprire trattative commerciali e culturali, come l’accordo tra il Mercosur e l’Unione europea, e diventare il ponte europeo verso l'America Latina.
Al Portogallo, l’entrata nell’Unione è servita poi soprattutto per creare un legame con il continente europeo. Per più di quarant’anni, a causa della dittatura di Salazar, il Paese era stato costretto a guardare soprattutto verso l’Atlantico e le sue ex colonie, un po’ a causa del suo regime, e un po’ a causa di quello spagnolo, che a livello geografico ostacolava il suo contatto con il resto dei Paesi europei.
A proposito di spirito collaborativo: ho l’impressione che, a differenza di altri Paesi, quelli dell’Europa del Sud (quindi non solo Spagna, Italia e Portogallo, ma anche la Grecia) non abbiano mai difeso in maniera unitaria i loro interessi all’interno dell’Unione: è così?
È così, per ragioni storiche e politiche. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Mediterraneo smette di essere, soprattutto per motivi coloniali, “l’autostrada dell’Europa” e il baricentro si sposta verso l’Europa centrale, che è dove poi nasce la Comunità economica europea, istituita nel 1957 da Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale.
Il processo di integrazione inizia da qui: da una visione economica comune, che poi diventa anche politica, e che si basa sulla vicinanza geografica che permette lo scambio di merci e idee. Il problema è che, per molto tempo, anche le scelte politiche hanno un’impostazione continentale, e non mediterranea. Penso alla politica agricola comune (PAC), che per trent’anni è stata orientata alle principali produzioni dell’Europa centrale, come ad esempio i latticini e il grano, e che però sono marginali per i Paesi del Sud dell’Europa.
La Spagna ha provato, ad esempio, con la Conferenza di Barcellona del 1995, a rilanciare una strategia comune europea per la regione mediterranea, ma ha incontrato poco sostegno da parte della Francia e dell’Italia.
L’Italia, in particolare, che è tra i Paesi fondatori dell’Unione, la terza economia europea e uno dei Paesi più ricchi al mondo, avrebbe potuto fare di più. Proporre cambiamenti, riforme, far sentire la sua voce.
Abbiamo scelto di fare il contrario: mi è capitato più volte di sentir dire dai nostri presidenti, ad esempio, “noi non siamo la Spagna” o “noi non siamo la Grecia”. Ed è così, a livello economico, ed è difficile pensare che in futuro sia il contrario.
Gli altri Paesi, però, non la pensano in termini così conflittuali: gli spagnoli hanno accettato quasi fin da subito il fatto che l’Italia fosse uscita dalla dittatura molto prima di loro e che quindi avesse fatto un percorso diverso.
L’unico sorpasso che vedo, e che è già avvenuto, è quello sul piano sociale e culturale. La Spagna ha dimostrato una capacità di cambiamento che l’Italia non ha. Penso alla maggiore sensibilità verso le questioni di genere, dall’occupazione femminale ai femminicidi, ma anche agli stipendi: quelli spagnoli sono aumentati negli ultimi trent’anni, i nostri sono diminuiti.
E il Portogallo? Com’è cambiato il suo rapporto con l’Unione Europea?
Grazie ai fondi europei, il Portogallo ha investito prima tantissimo sull’agricoltura, poi sul turismo e sulle città. Un buon esempio è Porto, che una volta era una città degradata, con dei gravi problemi di criminalità: non tutti i problemi sono stati risolti, ma oggi Porto è di certo molto diversa rispetto a solo vent'anni fa. Lo stesso vale per le Azzorre.
Il tentativo del Portogallo è stato quello di differenziare, per non lasciare nessuno o nessuna indietro. Oggi il Paese riceve il sostegno dell’Unione europea per sviluppare tantissimo progetti che riguardano le energie rinnovabili, soprattutto quella eolica. Ovviamente, non tutti questi grandi progetti sono immuni alla corruzione, come dimostra la caduta dell’ultimo governo.
Ultima domanda: anche Spagna e Portogallo, come altri Paesi, sono attraversati da spinte antieuropeiste. Come mai?
Come dicevo all’inizio, l’entrata nel progetto europeo di Spagna e Portogallo è avvenuta in maniera entusiasta, quasi acritica, e lo è rimasta per anni, grazie anche al progresso economico che ha generato.
Le spinte antieuropeiste nella penisola iberica esistono, ma sono minori rispetto a quelle di altri Paesi, come ad esempio l’Italia. Un po’ perché, appunto, hanno avuto meno tempo per svilupparsi. E un po’ perché, paragonandoli ad altri Paesi del Sud Europa, come Grecia e Italia, la pressione dell’immigrazione è minore.
Prima l’entrata nell’Unione di alcuni Paesi dell’Est, poi la crisi del 2008 e il default della Grecia hanno però alimentato sentimenti antieuropei anche in Spagna e Portogallo: le elezioni di questi giorni saranno una buona cartina tornasole per misurarne l’intensità.
Per approfondire:
La Spagna è “più avanti” dell’Italia nelle questioni di genere? Ne avevamo già parlato qui:
Breve recap della caduta dell’ex primo ministro portoghese António Costa, dovuta a uno scandalo di corruzione legato, tra le altre cose, alla concessione di permessi per produrre idrogeno verde.
Un interessante articolo sul “modello Porto”, scritto dal giornalista Ivan Carvalho per Rivista Studio.
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Il 23 maggio il governo portoghese ha approvato un pacchetto di misure per aiutare i giovani dal nome abbastanza eloquente: “Tens Futuro Em Portugal”, “hai un futuro in Portogallo”. Il pacchetto prevede un abbassamento dell’Irpef, agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa e un aumento del numero delle borse di studio e della capacità delle residenze universitarie.
Il 27 maggio il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha visitato Madrid, dove la Spagna e l’Ucraina hanno firmato un accordo bilaterale di sicurezza che assicura a Kiev più di 1.100 milioni di euro in aiuti militari: è il più grande pacchetto di forniture militari che la Spagna ha offerto finora non solo all’Ucraina, ma più in generale a qualsiasi altra potenza straniera. Il giorno dopo Zelensky è arrivato a Lisbona, dove ha firmato un accordo simile con il Portogallo, ma da 126 milioni di euro.
Il 28 maggio la Spagna ha riconosciuto ufficialmente lo Stato palestinese. Lo hanno fatto, lo stesso giorno, anche la Svezia e l’Irlanda. Inoltre, ieri il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha annunciato che la Spagna chiederà di unirsi al Sudafrica nella causa contro Israele per genocidio.
Il 30 maggio la Spagna ha approvato in via definitiva la legge di amnistia, la misura principale su cui si regge l’accordo tra il partito indipendentista Junts e il Partisto socialista che ha permesso a Sánchez di tornare al governo lo scorso novembre. La legge metterà fine ai processi in atto e annullerà le condanne già emesse nei confronti di centinaia di politici e attivisti indipendentisti tra il 2012 e il 2023.
Il 3 giugno il leader del Partido Popular (centrodestra), Alberto Núñez Feijóo, ha annunciato che dopo le elezioni europee potrebbe presentare una mozione di censura contro Sánchez, proprio con il sostegno gli indipendentisti di Junts.
Il 4 giugno, il giudice che si occupa delle indagini nei confronti della moglie di Sánchez, Begoña Gómez, per presunta corruzione e traffico di influenze, l’ha convocata a testimoniare come indagata. Sánchez ha reagito pubblicando una seconda lettera alla cittadinanza sui suoi profili social (questa volta, però, senza minacciare di dimettersi).
Uno dei famosi tori di Osborne (Il Post ne ha raccontato la storia qui) con disegnata sopra la bandiera palestinese (AP Photo/ Bernat Armangue).
(Quanto è difficile, tutte le settimane, continuare a parlare di Spagna e Portogallo, come se in Palestina non stesse succedendo nulla. Non sono la persona giusta per parlarne in maniera approfondita: qualche tempo fa, però, avevo selezionato alcune risorse iberiche di approfondimento che credo possano esserti utili).
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Roberta