Sbarre rosa
È il nome dell’unico gruppo di supporto per persone LGBT+ detenute in Spagna: ecco la sua storia e un approfondimento sulla vita delle persone trans nelle carceri spagnole
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Iniziamo!
Sbarre rosa
“Quando sono entrata qui dentro ho avuto molti problemi. Un ragazzo mi ha picchiato per il mio orientamento sessuale. Mi ha detto: Maledetto frocio, mi fai davvero schifo”, racconta Catalina, una donna trans di 35 anni, in prigione da tre.
Davanti a lei, circa altri 170 detenuti e detenute del carcere di Soto del Real, a Madrid. Sotto di lei, attaccate al palco, ci sono una bandiera arcobaleno e una a strisce azzurre, rosa e bianche: quella del collettivo trans.
“Ma non mi sono mai nascosta e mi sono armata di coraggio. Oggi cinque delle persone che mi disprezzavano sono quelle che mi appoggiano di più. Mi hanno chiesto scusa per non essersi volute sedere a mangiare con me”, aggiunge.
Catalina è solo uno dei circa venti membri di Rejas Rosas, un gruppo di supporto per persone LGBT+ detenute, e questo è il loro primo atto pubblico davanti al resto della popolazione carceraria.
Alle sue spalle, il logo del collettivo: una grande rosa che cresce attraverso sbarre dipinte di rosa. “Siamo in prigione per quello che abbiamo fatto. Non vogliamo essere prigionieri anche di pregiudizi e ignoranza”, spiegano i membri del gruppo.

Rejas Rosas nasce nel 2022 su iniziativa di due assistenti sociali del centro penitenziario con l’idea di diventare “una rete di supporto dentro e fuori dal carcere, in modo che man mano che le persone escono da qui possano avere punti di riferimento”.
Per realizzare questo progetto, le due hanno contattato la Fundación 26 de Diciembre, un’associazione spagnola che si occupa soprattutto di persone anziane LGBT+.
“Abbiamo subito detto di sì, anche perché si tratta di un progetto unico in Spagna”, mi ha spiegato Victor Mora, che è diventato coordinatore del progetto Rejas Rosas per conto della fondazione.
Da anni, inoltre, la fondazione offre formazione ai membri del personale penitenziario su diversità sessuale e di genere, ma anche di storia e diritti del collettivo LGBT+.
“Per i primi anni, Rejas Rosas è stata un’attività di volontariato. Da quest’anno, grazie a una sovvenzione del Ministero dell’uguaglianza, possiamo sostenere i costi del personale e di spostamento”, ha precisato Mora.
Non solo: da qualche tempo, Soto del Real non è l’unico carcere spagnolo ad avere un gruppo di supporto per persone LGBT+. La fondazione ne ha creato uno anche a Teixeiro, in Galizia, dove la non-profit ha una seconda sede.
“Ci hanno chiamato anche altri istituti, ma al momento non abbiamo le risorse per far nascere nuovi gruppi. Anche se speriamo di poterlo fare presto”, ha aggiunto Mora.

Catalina è una delle 103 persone trans detenute in Spagna, secondo le ultime statistiche del ministero dell’Interno (che risalgono ad aprile 2023): di queste, 61 sono donne trans, 39 uomini trans e due sono persone non binarie.
Esiste poi un’altra persona trans, l’unica a essere detenuta in un carcere basco: le autorità regionali si sono rifiutate di fornire informazioni sul genere con cui si identifica per proteggere la sua privacy.
In totale, le persone trans e non binarie detenute in Spagna rappresentano lo 0,18% dell'intera popolazione carceraria.
Sia Catalina, che Salomé e Isa, altre due donne trans del centro di Soto del Real, hanno scelto di vivere nei moduli maschili del carcere.
Di fatto, delle 61 donne trans in carcere, 26 si trovano in moduli femminili, 31 in celle situate in aree maschili e quattro in moduli misti. Dei 39 uomini trans, 29 si trovano in moduli femminili, nove in aree maschili e uno in un modulo misto. Delle due persone non binarie, una si trova in un modulo maschile e la seconda in un modulo femminile.
La legge spagnola infatti prevede che i detenuti e le detenute possano scontare la loro pena nei moduli che rispecchiano il genere con cui si identificano.
Tuttavia, come hanno spiegato alcune fonti penitenziarie a El País, durante la valutazione iniziale, si cerca “ciò che è più vantaggioso in termini di trattamento”, cioè ciò che si ritiene migliore per la persona e per il suo successivo reinserimento.
L’essere trans è quindi una componente importante, ma non determinante nel decidere a quale modulo la persona verrà assegnata.

“Non è un dibattito, ma una disputa. E no, non interferisce in nessun modo con il nostro lavoro, perché i nostri principi sono molto saldi e a favore dell’inclusione delle persone trans”, mi ha spiegato Mora, quando gli chiedo l’impatto che ha la spaccatura nel femminismo spagnolo sulla questione trans sulla sua professione.
Una spaccatura che è diventata sempre più profonda nel 2023, con l’approvazione della cosiddetta “Ley trans” che prevede, tra le altre cose, la possibilità per tutte le persone a partire dai 16 anni di autodeterminare liberamente la propria identità di genere.
Prima di questa legge, per cambiare la propria identità di genere sul documento d’identità erano necessari almeno due anni di trattamento ormonale e una diagnosi medica o psicologica di “disforia di genere”: con la Ley trans basta una dichiarazione della persona interessata.

La legge è stata fortemente criticata dal femminismo radicale (o trans escludente), oltre che dalla destra: la principale argomentazione a sfavore riguardava il rischio che gli aggressori sessuali cambiassero di genere per evitare o alleviare le pene a cui sono condannati.
Si tratta, però, di critiche prive di fondamento.
La normativa approvata dal parlamento spagnolo, infatti, ha colmato questa lacuna fin dall'inizio: il cambio di genere nell'anagrafe non consente di evitare o alleviare le pene per violenza sessuale o di genere.
“Si è creato un grande clima di panico su questa questione, che aumenta i livelli di ansia, depressione e isolamento delle persone trans”, ha dichiarato Mora.
Rejas Rosas è, nel suo piccolo, un antidoto a tutto questo.
E in Italia?
In Italia, l’assegnazione della persona detenuta all’interno del carcere si basa prima di tutto sul sesso riportato nei documenti e non sull’identità di genere.
Per saperne di più, Fratture ha intervistato Anna D’Amaro, parte del direttivo ed ex operatrice del Movimento identità trans (Mit), l’associazione per i diritti e la dignità delle persone trans, fondata nel 1979: puoi leggere l’intervista qui.
Per approfondire:
Due numeri dall’archivio di Ibérica: uno sul lavoro della Fundación 26 de Diciembre con le persone anziane LGBT+ e un altro sul femminismo spagnolo, con un’intervista alla ricercatrice Silvia Semenzin:
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